Vita con Osho – 1
Anand: Vita con Osho
prima parte
Non ho mai saputo o immaginato cosa fosse un Maestro spirituale fino a quando sono andato in India, a Pune, nel 1980.
I libri che avevo letto fino ad allora mi avevano dato l’idea che ci fosse un mondo che io non conoscevo e che pensavo esistesse solo nella fantasia di qualche scrittore o in qualche sperduto e inaccessibile punto del pianeta.
Pensavo comunque che non fossero cose veramente reali o che potessero avere un qualsiasi vero impatto sula vita quotidiana delle persone.
Nel mio immaginario, l’unica realtà non materiale e ordinaria era rappresentata dalle vestigia della chiesa cattolica, una realtà verso la quale avevo sviluppato una forma di repulsione e verso la quale percepivo la politica come unico antidoto.
Ma non avevo in realtà nessuna chiarezza su come funzionasse il mondo, se non qualche slogan preso a prestito dalle mode del momento.
Vivevo in una densa e scomoda nuvola di pensieri e brancolavo nell’inconsapevolezza più grossolana rispetto alle mie emozioni e ai miei bisogni più profondi che cercavano uno spiraglio per emergere alla luce e attirare la mia attenzione.
Allora, chi è questo personaggio che mi ha attirato in India e del quale sono immediatamente diventato discepolo? questo stravagante guru che chiedeva alla sua gente di vestirsi con abiti di un solo colore, il granata nelle sue varie sfumature e scoloriture, e di portare al collo una collana di 108 perle di legno con un medaglione con l’immagine della sua faccia?
Cos’era che esercitava tanto fascino su schiere di reduci delle immaginarie rivoluzioni del ‘68 e dintorni?
La risposta per me è facile: con la sua proposta di vita così radicalmente eversiva, Osho rispondeva a due bisogni basilari: guadagnare la libertà e dare un senso della vita.
Libertà dai condizionamenti che mi incatenavano e perpetuavano valori che avevano ormai perso ogni forza trainante, e libertà per ricercare qualcosa che non sapevo bene cosa fosse ma che a trent’anni come avevo allora era ormai diventato un pensiero fisso che alcuni chiamavano angoscia esistenziale.
La richiesta di vestire in quel modo non convenzionale mi serviva egregiamente come un costante promemoria: mi ero imbarcato in una strana avventura nella quale valevano regole diverse da quelle socialmente dominanti che ruotavano attorno alla competizione e al successo. Qui si trattava di scoprire qualcosa di eterno e fondamentalmente impossibile da esprimere a parole.
Uno dei cartelli che mi piacevano di più nell’Ashram (la sede della comunità) di Pune era piazzato all’ingresso della sala di meditazione principale, vicino a una serie di scaffali dove si depositavano le scarpe per poter entrare scalzi. Il cartello recitava: lascia qui le tue scarpe e la tua mente. Più tardi avrei capito che l’implicazione era: porta solo il tuo cuore.
Un concetto che ricorreva spesso nei discorsi di Osho era quello che la meditazione non poteva essere qualcosa che facevamo un’ora al giorno mentre per le restanti 23 ore potevamo continuare a vivere come zombie persi nelle nuvole dell’inconsapevolezza. L’idea era che la meditazione/ consapevolezza – le due parole vanno intese come sinonimi – doveva accompagnarci 24 ore al giorno e quello era l’obiettivo verso il quale muovere. Un’idea assolutamente pazzesca considerando che riuscire a essere consapevoli per qualche minuto durante un’ora di meditazione era già da considerarsi un grande risultato.
Questa faccenda poi mi impressionava particolarmente perché evocava in me un ricordo di quando ero adolescente e a scuola avevamo studiato la rivoluzione russa. Uno dei personaggi leader e ideologo della rivoluzione era stato Trotski che propugnava il concetto di Rivoluzione Permanente. La cosa mi aveva spaventato profondamente perché nella mia giovane mente questo concetto mi portava a immaginare che il caos, le crudeltà, lo spargimento di sangue e gli altri trucidi eventi non dovessero finire mai e questo era davvero un incubo insopportabile.
Ovviamente avevo interpretato male quelle parole del libro di storia, ma lo capii solo molto più tardi e quelle parole di Osho sulla consapevolezza permanente avevano evocato un potente fantasma del mio immaginario.
Un’altra delle indicazioni di percorso che io consideravo forti e sentivo come altamente destabilizzante riguardava l’espressione delle emozioni.
Questa indicazione si articolava in tre punti:
primo non reprimere le tue emozioni,
secondo puoi esprimerle ma senza buttarle addosso agli altri,
e terzo diventa un testimone delle tue emozioni così che tu possa rispondere alle vicende del mondo, invece che reagire.
Questo essere spettatori delle proprie emozioni invece che vittime è un passaggio cruciale nell’evoluzione della consapevolezza.
Ma il mio problema era che mi sembrava di non avere quasi nessuna emozione e quindi tutto il percorso risultava particolarmente ostico.
Da qui la necessità di indagare a fondo nella struttura della mia personalità per riuscire ad allentare i blocchi che tenevano imprigionata sotto la superficie una enorme quantità di energia vitale. Questa energia era diventata adesso indispensabile per sostenere il nuovo tipo di vita e relazioni nelle quali mi ero imbarcato.